Lo scorso marzo a L'ARGOLIBRO abbiamo dedicato un appuntamento a Zygmunt Bauman, il grande studioso della società contemporanea scomparso lo
scorso gennaio.
L'incontro è stato curato dal professor Giuseppe Lembo e dalla Professoressa Luciana Capo. Vi proponiamo la relazione della Professoressa Capo, che certamente offrirà a tutti noi ulteriori spunti di riflessione.
L'incontro è stato curato dal professor Giuseppe Lembo e dalla Professoressa Luciana Capo. Vi proponiamo la relazione della Professoressa Capo, che certamente offrirà a tutti noi ulteriori spunti di riflessione.
Zygmunt
Bauman e l’Amore liquido*
Luciana Capo
In una
società dove esiste la grande sapienza narrativa del digitale, percepita nella
profonda ambizione di una dimensione contemplativa, vengono a delinearsi
confini definiti che si muovono, come Orfeo, tra la luce e l’ombra in
un’atmosfera di trasparenze. Per fortuna il viaggio nell’anima non si ferma e
le emozioni sfidano ciò che è velato, nascosto, forse estremo e disperato e
Galilei ci costringe ad aprire gli occhi sul vero, su una umanità che odora di
sangue e sgomento e che affascina, sconvolge, converte. Forse le parole
potranno salvarci? C’è nell’uomo una sottomissione volontaria alle parole
gelide ed evasive, parole che non hanno fede né cielo, consumate dai network ma
fatalmente contorte da visioni di bellezza e desiderio struggente. L’avventura
dell’uomo si spegne e si consuma nel suo sguardo, in uno sguardo che ha
tradotto ogni emozione, ogni tormento, ogni entusiasmo, ogni dolore in segni
nei quali si esprime il senso della vita; e il calore e la morbidezza dell’Io
non graffiano ma accarezzano. La storia ci riporta ad un utopista, Dario Fo,
che insegnava agli studenti l’arte di cambiare il mondo, in una Milano degli
anni ’70, dura e bellissima, appassionata di tutto: di pittura, di cinema, di
architettura, di editoria, di giornalismo. Egli era un uomo rinascimentale,
innamorato di qualsiasi forma di espressione artistica… e oggi? La tecnologia
invita alle manipolazioni più decisive e dissennate, ma l’uomo non può uccidere
ciò che ama e lo farà per la gelosia e il dolore di sentirsi straniero,
impaziente di scoprire il peccato, irretito dal suo stesso struggimento
vademecum della volubilità e del disinganno. Salvare il mondo sarebbe rivedere
allo specchio immagini vere, talvolta crude e brutali, perché crudeltà e
brutalità sono nella natura delle cose e degli eventi e che la qualità del
dialogo ci restituisce integre e compatte nei contenuti, senza finzioni né
assenza di passioni, oltre le barriere della visione. La visione assedia,
concupisce ed un vento impetuoso agita sempre i sogni dove ogni particolare è
accolto e anticipato. Forse nella notte di Pietroburgo Dostoevskij fissa
l’archetipo del visionario malinconico che fugge il mondo perché il mondo non
corrisponde al suo ideale. Lo smarrimento che spinge a ripiegare in se stessi,
che blocca nell’immobilità e poi nel rimorso dell’immobilità, è un elemento
costitutivo del flusso di coscienza e della “schizofrenia esistenziale”
contemporanea. “Noi abbiamo perduto la nostra ombra reale, quella che ci fa il
sole, perché essa non esiste più per noi, non le parliamo più, e con essa il
nostro corpo ci ha lasciato”. (Dostoevskij, Notti bianche ). Bauman nell’“Amore
liquido” ci parla della relazione, dell’ossessione, dell’erotismo, dell’ansia e
del turbamento, della luce e dell’incubo delle anime a brandelli e del gioco a
due che si rinnova con una misteriosa, cieca ma vitale speranza. Ricordo la
fiaba della “Piccola fiammiferaia”: ella vaga per le strade e prega i passanti
di comprare i fiammiferi, l’offerta della luce, del calore, dell’amore che
sente, che soffre, che palpita e che desidera e che, probabilmente, vuol
fuggire dall’oscurità della freddezza. La freddezza segna la fine di ogni
relazione. Non appena si diventa gelidi nel sentimento, nel pensiero o
nell’azione, la relazione diventa impossibile. E così la piccola fiammiferaia
accende tutte le sue risorse per vivere e il fuoco è il simbolo più importante
del vivificatore della psiche.
Nelle
“Notti bianche” di Dostoevskij Nascenka è la ragazza ingenua, tutta dedita alla
cura della vecchia nonna, prigioniera della sua apprensione, che sogna di
andare sposa ad un principe, impaziente di scoprire il peccato; e così il
giovane inquilino la affascina e la irretisce senza sfiorarla. Si avverte nel
suo animo il senso dell’effimero e dell’eterno e un afflusso di linfa , sempre
fecondo. L’emozione ha molti volti: quello di cera, quello di alabastro, quello
ambiguo e puro , ma ciò che li accomuna è il deliquio, la perdita dei sensi e i
colori della consunzione. In tutto ciò l’anima non è mai vittima insoddisfatta
e resta regina. La razionalità liquido-moderna negli impegni duraturi ravvisa
oppressione e una dipendenza incapacitante. Vincoli e legami rendono i rapporti
umani “impuri” come farebbero con qualsiasi atto di consumo che presume
soddisfazione istantanea e istantanea obsolescenza dell’oggetto consumato.
Bauman parla di un mondo avvolto in una fitta rete di chiamate e messaggi che
lo rende invulnerabile e l’obiettivo (anche quando si parla di amore) è quello
di non farsi accalappiare e di evitare gli abbracci troppo soffocanti ed anche
i contatti sessuali sono soffusi e dispersi, mutano direzione guidati dalla
seduzione degli oggetti del desiderio. L’essenziale è essere connessi e “le
connessioni sono solide rocce circondate da sabbie mobili”(Bauman, Amore
liquido). Tutto ciò rende superflua l’attenzione allo sguardo degli altri e gli
occhi si sono trasformati in muri bianchi e un muro bianco di fronte ad un
altro muro bianco non provoca alcun danno. Persino il viaggio è reso superfluo
dall’artificio della connessione. La liquidità dei cellulari segnala
materialmente e simbolicamente la definitiva liberazione dal luogo. Ma l’uomo
non può liberarsi di se stesso e della sua vita piena di significato dovendo
cercare di incanalare la modernità liquida in una vibrante agorà, centrata
sull’identità. Hegel ci dice che la nottola di Minerva, dea della sapienza,
distende le ali prudentemente al crepuscolo; la conoscenza giunge alla fine del
giorno, quando il sole si è posato e le cose non sono più ben illuminate e
facili da trovare e maneggiare (ben prima che Hegel coniasse la metafora della
nottola che indugia, Sofocle aveva fatto della chiarezza della visione il
monopolio del cieco Tiresia) e Martin Heidegger aveva parlato di una buona
illuminazione che è autentica cecità; non si può vedere quello che è fin troppo
visibile,ci si accorge delle cose quando scompaiono o vengono distrutte. La
modernità si è specializzata nel mettere in moto il mondo, ha spalancato la
possibilità e la necessità di dare una nuova forma. Marx ed Engels elogiarono i
rivoluzionari borghesi che avevano dissolto ciò che è solido e profanato ciò
che è sacro, ovvero le cose che per lunghi anni avevano tarpato i poteri
creativi dell’uomo. I Filosofi del Rinascimento celebrarono le prospettive
straordinarie che l’incompiutezza della natura umana spalancava all’audacia e
al talento. Pico della Mirandola annunciò con gioia e soddisfazione: “Possiamo
diventare ciò che vogliamo”. Il Proteo di Ovidio che poteva trasformarsi da
giovane a leone, cinghiale, serpente, pietra o albero e il camaleonte, grande
maestro della reincarnazione istantanea, divennero i modelli della virtù umana
appena scoperta dall’autoaffermazione. Alcuni decenni più tardi, J. J. Rousseau
avrebbe chiamato “perfettibilità” l’unico attributo necessario di cui la natura
abbia dotato la razza umana, identificando nella capacità di autotrasformazione
la sola essenza umana e il solo tratto comune a noi tutti. Gli uomini sono
liberi di creare se stessi. La necessità di divenire quello che si è, è la
caratteristica della vita moderna e non della individualizzazione moderna. 3
Gli
antichi già conoscevano la verità? Nel suo dialogo “De vita beata” Lucio Seneca
sottolineò che in netto contrasto con i piaceri della virtù, le delizie
dell’estasi si raffreddano nel momento in cui sono più intense; la loro
capacità è così limitata da esaurirsi in un istante. Ravvivati per un attimo
fuggevole, coloro che cercano il piacere dei sensi cadono rapidamente nel
languore e nell’apatia. Seneca ammoniva: “La gratificazione che giunge più
rapidamente è anche quella che per prima muore”. La fragilità endemica della
gratificazione istantanea e lo stretto rapporto tra l’ossessione del piacere,
l’indifferenza per quello che è stato e la sfiducia per quello che verrà
tendono ad essere confermati, oggi, proprio come succedeva 2000 anni fa. Un dei
più perspicaci sociologi del nostro tempo, Pierre Bourdieu, ha dato a un lavoro
del 1997 il titolo “Oggi la precarietà è dappertutto”. Se questo è vero, per
scongiurare la frustrazione sarebbe opportuno astenersi dal coltivare abitudini
e legami. Uomini e donne sono, dunque, addestrati a percepire il mondo come un
contenitore pieno di oggetti usa e getta, inclusi gli esseri umani. La vita
frammentata tende a essere vissuta episodicamente come una serie di eventi non
connessi. Ritorniamo al tema iniziale: L’amore ha bisogno della ragione? Nel
Processo di F. Kafka l’amore è colpevole di essere accusato; e se anche ci si
può discolpare dei delitti di cui si viene accusati, non c’è difesa contro
l’imputazione di essere accusati. Nel Simposio di Platone, Aristofane lega
l’amore al desiderio di una completezza ancora mancante: “Il desiderio del
tutto e la sua ricerca è detta amore”. Quello che va a gloria dell’amore è nel
contempo la sua disgrazia. L’Infinito è anche Indefinito, non può essere
identificato, circoscritto, misurato, è tetragono ad ogni definizione, fa
saltare i sistemi, viola i confini. L’amore ha bisogno che la ragione lo salvi
dalla sua follia perché la società liquida gli oppone persone senza reddito,
madri senza marito e troppi vecchi soli… Forse viviamo in un secolo violento,
un secolo di violenze stimolate dalla progressiva esautorazione degli Stati a
opera dei poteri globali scatenati. Oggi, liquidamente c’è un indebolimento dei
legami che è una condizione importante per il successo della produzione sociale
di collezionisti di sensazioni che sono anche maturi ed efficienti consumatori.
In questo modo siamo giunti in un territorio in cui gli esseri umani non hanno
mai abitato, forse dovremmo appellarci alla Dea di Parmenide, che è signora del
tempo e che rivela la verità. Questa Dea non abita un Olimpo affollato di
immortali negligenti o distratti. La Dea è la verità, ciò che la filosofia
insegue come problema più profondo. In tal senso, la verità è primordiale e
originaria. Ma noi siamo ancora capaci di vedere la terra e il cielo come i
Greci ebbero modo di vederli e contemplarli? Almeno questo occorre tentare,
porsi con il pensiero in quel tempo eterno che Parmenide abitò, trasmettendo
all’Occidente, e in particolare all’Europa, il senso stesso della civiltà.
Probabilmente dobbiamo pensare al trascurato frammento 14, a quanto Parmenide afferma
della Luna: “Luce che brilla nella notte, errante attorno alla terra, di uno
splendore che proviene d’altro luogo”. Le domande di Parmenide sorgevano da una
terra che accoglieva tutte le cose nel grembo di ciò che egli con riverenza
chiamava physis e ognuno le deve la memoria dell’Immortalità.
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