Nel centenario della nascita di Pasolini, voglio segnalarvi una particolare intervista dell’estate del 1966 con Giorgio Bocca, proposta da Arcangela Contessa.
Intervista a Pasolini.
“L’arrabbiato sono io”
Giorgio Bocca, «Il Giorno», 19 luglio 1966
Certi mattini, al risveglio, il pensiero dell’età è come
una folgore. L’ulcera, un mese a letto, la debolezza, i riguardi. Mi sono
sentito un vecchio, per la prima volta.
Già, il vecchio Pasolini Pier Paolo, cinquanta
chili di una rabbia che è solitudine, amore, timidezza, incontinenza, paura,
genio. Cinquanta chili di uomo. Ma non è questo che fa tenerezza o mette a
disagio, ma ben altro: sentirsi in debito con lui per conto di tutti e non
sapere che fare, come ripagarlo dell’intelligenza che ci ha dato in questi
anni, generosamente. Non è il denaro che vuole anche se noi ci guardiamo bene
dal darglielo; né siamo autorizzati a concedergli quella esenzione dalla morale
comune che chiede con tanta ingenua insistenza: diamogli almeno la stima
intellettuale che merita (su diamogliela cuori spugnosi e cervellini esangui),
diciamolo che è il migliore di tutti.
La
mamma porta il caffè all’ospite e la camomilla al figlio. Sediamoci nel
giardino, c’è un po’ di vento. Così, tanto per sfuggire al patetico, attacco un
po’ alla balorda.
Senta Pasolini,
per lei chi è il vero arrabbiato? Genet? Landroux? Germano Lombardi? Lenin?
(Rimane male: son venuto da lui per scherzare? Ed è un altro segno del vero
talento: l’ingenuità di fronte al banale. Comunque cambiamo registro.) Volevo
chiederle, seriamente, qual è la differenza tra arrabbiato e rivoluzionario (Si
passa la mano sul viso e socchiude le palpebre come uno che soffre di
un’emicrania permanente).
La contestazione dell’arrabbiato è interna al sistema,
per la modifica del sistema, ma perché esso viva. Il rivoluzionario invece lo
nega sul piano reale e gli contrappone una prospettiva utopistica. No, mi lasci
dire; spesso il rivoluzionario dopo aver distrutto la società costituita eccede
nella ricostruzione, vuole che abbia tutti gli attributi, ci riporta anche il
moralismo e il perbenismo borghesi, al punto che l’arrabbiato, a volte, incide
più profondamente del rivoluzionario. Però una cosa è chiara, l’arrabbiato
quasi sempre non è un rivoluzionario, mentre il rivoluzionario è sempre un
arrabbiato.
Eppure si dice
che un carattere del grande rivoluzionario sia il suo distacco, il suo sguardo
gelido, da aquila, la sua facoltà di prevedere e muovere la storia trasferendo
la sua rabbia ai manovali della rivoluzione: Lenin che prepara la rivoluzione
in Svizzera.
La connotazione di cui lei parla, il sovrano distacco,
non appartiene tanto al rivoluzionario, quanto al genio. Che Lenin fosse un
genio è fuori dubbio. Eppure io non sarei tanto sicuro sul suo distacco. A
scavargli nell’anima probabilmente avremmo scoperto la ferita profonda, aperta,
lasciata dall’uccisione del fratello. Il Lenin arrabbiato non è quello che si
scaglia contro la borghesia reazionaria, ma l’altro delle polemiche contro i
menscevichi. Ed è un segno di rabbia autentica, di passionalità.
Qual è allora il
modello dell’arrabbiato non rivoluzionario?
Socrate, senza esitazione. Arrabbiato, lui sì, con un
distacco scientifico, al punto di rinunciare alla vita serenamente, e
arrabbiato noti bene contro le mirabili istituzioni democratiche di Atene. Il
caso di Socrate è perfetto: muore per rispettare le leggi di un sistema che
pure consente la vita del suo accusatore Meleto.
E lei lo è
arrabbiato? Le dico subito che l’avanguardia contesta…
Lasci stare, ho sempre evitato la polemica con
l’avanguardia. Nei primi tempi me ne interessai, ma ci volle poco a capire che
si trattava di nullità. È gente in malafede, che fa dei giochetti. Inutile
discutere, sarebbe come litigare come una prostituta.
Mi scusi se
insisto, non è tanto la polemica che mi interessa, ma il tema, questa rabbia di
cui stiamo parlando, le forme e i contenuti che deve assumere. Di lei, per
esempio, dicono: “Sì, Pasolini inveisce, maledice, dice le parolacce, ma in un
contesto narrativo, vedi Una vita violenta, che ha la struttura del Cuore, con la differenza che il Cuore è di sinistra e il suo libro no. Il Cuore nel senso che il protagonista è un eroe
positivo, bravo e buono e che in fondo la borghesia che osserva la sua povertà
non è poi così malvagia.
Boutade per boutade, potrei rispondere che anche
nell’Idiota di Dostoevskij c’è un
eroe positivo. Quei signori non hanno ancora capito che un personaggio, anche
se descritto a tutto tondo, non assume mai un significato preciso e vincolante,
non è una dichiarazione di fede e neppure di voto, ma l’espressione, la misura
del grado di conoscenza della realtà cui è giunto un autore. La verità è che il
mio Cuore di destra non è
diventato il libro della borghesia, ma l’ha spinta a una reazione rabbiosa,
razzistica di odio verso il sottoproletariato e che la mia ‘vedetta lombarda’,
se lo ricordino quei signori, ha scatenato persecuzioni a cui non sono rimasto
estraneo.
C’è dell’altro,
Pasolini, dicono che lei è un poeta ‘da volo su Vienna’, capace di usare la
lotta di classe come D’Annunzio usò la guerra mondiale, a fini estetizzanti.
È un’accusa da cui non mi difendo. Vuol dire che mi
sopravvalutano. Che dicono ancora gli avanguardisti? Ah ecco, dicono che il
linguaggio è di importanza fondamentale per gli arrabbiati, che è ridicolo
arrabbiarsi in versi alessandrini. Non amo i versi alessandrini, ma a volte mi
sembrano una novità rispetto alle codificazioni più recenti dei versi
alessandrini.
Pasolini, io al
suo posto non me la prenderei solo con l’avanguardia. Dove sono nella
repubblica italiana delle lettere i veri arrabbiati?
I letterati italiani sono, per definizione, dei
soddisfatti o dei rassegnati. Salvo i pochi che vagano come larve, nella
periferia, salvo i rarissimi che operano aristocraticamente a livello
internazionale.
E secondo lei
perché la rabbia è così rara dalle nostre parti?
Ci sono le grandi ragioni storiche: la Controriforma, la
rivoluzione liberale imitata, posticcia, la rassegnazione, l’abitudine
secondare all’irresponsabilità. C’è una borghesia fragile, improvvisata, un establishment incerto,
e la grande rabbia, lei lo sa, esiste dove c’è la grande borghesia, dove c’è il
grande nemico come nei Paesi anglosassoni. Poi c’è un motivo più recente: la
guerra partigiana da noi è stata una cosa importante, una rabbia vera,
drammatica. Una generazione vi ha dato il meglio, altre hanno creduto in buona
fede, ragionevolmente, che quello fosse il canale, il modello di una rabbia
seria, organizzata, esente da teatralità. È stato un bene per alcuni anni e poi
forse è stato un male, ha impedito nuove e più sincere manifestazioni, ha
chiuso energie giovani nel bozzolo dell’antifascismo generico.
Rabbia, protesta,
il corvo rivoluzionario che muore mangiato ma prevedendo il successore. La
rabbia che continua, inesausta. E l’ironia, Pasolini? La rassegnazione? La vita
è vita, gli uomini uomini, e tutto è prevedibile nell’imprevedibile. Perché,
alla lunga, uno non dovrebbe annoiarsi?
No, l’arrabbiato non rinsavisce, non si annoia, non trae
lezioni, è come una cartina di tornasole, reagisce. Solo che quando è giovane
spera nel futuro della sua vita mentre poi, con il passare degli anni, lo
colgono i dubbi, gli scoramenti. Allora la rabbia aumenta, diventa ossessione.
Sa perché ho fatto del cinema? Perché non ne potevo più della lingua orale e
anche di quella scritta. Perché volevo ripudiare con la lingua il Paese da cui
sono stato le cento volte sul punto di fuggire.
Lei si proclama
arrabbiato, uno dei rari arrabbiati italiani, perseguitato per amore della
rabbia. Eppure va a finire regolarmente che la sua rabbia si risolve in voglia
di vita, in opere utili agli altri, in ricerche rischiose fatte anche per gli
altri. Che effetto ha avuto per esempio il suo ultimo film?
Come sempre ambiguo. Io conduco una guerra su due fronti
contro la piccola borghesia e contro quel suo specchio che è certo conformismo
di sinistra. E così scontento tutti, mi inimico tutti, sono costretto a tenere
relazioni complicatissime, fatte di spiegazioni continue. Adesso ho assunto una
nuova fatica, dirigo una collana di saggi sul cinematografo.
Glielo dicevo. La
sua rabbia migliore è questa, aprire nuove strade, fabbricare nuovi strumenti.
E poi il teatro. Alzatomi dal letto dopo la malattia, ho
incominciato a scrivere per il teatro.
Il fiato caldo
del vento muove le piccole piante, in basso, c’è un contadino vestito da
portiere, quelle case di cartapesta sono Roma. Siamo rimasti in silenzio, poi
lui dice: «Forse l’unica cosa da fare è di continuare a fare ciò che abbiamo
fatto in questi anni». Bene, chiniamo la testa e avanti: è l’unico modo per non
accorgersi che si è aperta una porta con dietro il buio.