La strage del 30 di agosto, cinque operai travolti da un treno di servizio
mentre sostituivano i binari nei pressi della stazione di Brandizzo (Torino),
ha ricordato a più d’uno la strage della Thyssen, colosso della industria
tedesca specializzata nella produzione di ferro e acciaio, avvenuta il sei
dicembre 2007, con sette operai arsi vivi nel rogo dello stabilimento di
Torino. Sarà che entrambe le sciagure si sono verificate nel capoluogo
piemontese; sarà che le due stragi hanno suscitato eguale clamore mediatico; sarà
che nel primo processo, quello della Thissen, è stata prospettata per la prima
volta la ipotesi del dolo eventuale (delitto doloso anziché colposo: contestata
solo all’amministratore delegato della società germanica e accolta dalla Corte
di Assise ma solo in primo grado); qui, a Brandizzo ribadita, almeno nei primi
passi dell’indagine, dagli inquirenti torinesi;
sarà qualche altro motivo che mi sfugge, certa cosa è che ad ogni infortunio di
grave entità, come per la Thyssen e come per Brandizzo, si susseguono a
velocità sostenuta le manifestazioni (di cordoglio), le assicurazioni (per il
futuro), le promesse (di intervento), le offerte di risarcimento da parte delle
società assicuratrici (che non mancano mai e sono tutte, tranne quest’ultima,
destinate a rimanere lettera morta). E provengono da tutte le parti politiche,
ad ogni livello istituzionale. Dal Presidente della Repubblica al Papa, dal
Presidente del Consiglio alle alte cariche dello Stato. Frattanto, non cessano
quelle che chiamano morti bianche e che io continuo a chiamare rosse dal sangue
degli innocenti. Il numero è impressionante. Pensate. Dalla strage di Brandizzo
tredici morti sul lavoro (compresi i morti alla stazione): tredici morti in
sette giorni. Dall’edile all’imbianchino, dal manovale al tecnico della funivia:
tutti morti sul lavoro, l’uno folgorato, l’altro arso vivo, l’uno precipitato,
l’altro schiacciato, l’altro ancora travolto (dal cestello dell’autogru che si
è staccato dal gancio e lo ha ucciso). Indifferente è l’età: muoiono giovani e
vecchi, e in qualsiasi parte d’Italia, da Corato a Viterbo, da Brescia a
Caserta. Le reazioni sono tutte ex post: successive. Mentre qui occorre
attività di prevenzione, occorrono controlli affidati a gente esperta, non
necessariamente severa, capace: ma il controllo deve essere fatto prima, dopo
non serve che a piangere il morto. Le reazioni accompagnano l’incidente, purché
sia grave: e la gravità dipende dal numero delle vittime o, più raramente, dalla
notorietà della vittima o dalla natura dell’incidente. E neanche questo mi
sembra giusto. Perché la morte è morte, eguale per tutti, morte da lavoro, le
vittime non fanno differenza e, che io ricordi, l’unica vittima, sola ma
accompagnata dal coro dei mass media, risale al 2021, al 3 di maggio 2021,
quando la giovane Luana D’Orazio, ventidue anni, è rimasta inghiottita
dall’orditoio (macchina che prepara l’ordito) nella fabbrica tessile in cui
lavorava. Sarà stata la giovane età, sarà stato che era mamma da poco, sarà
stato che era bella (e come si fa a non essere belle a ventidue anni), certo è
che di Luana, e della sua morte, parlarono tutti, a partire da Mario Draghi,
allora Presidente del Consiglio. Pure, un controllo preventivo avrebbe evitato
l’incidente. Intanto perché Luana lavorava da sola come apprendista, e non ci
vuole un’arca di scienza per sapere che l’apprendista ha bisogno di un tutor,
soprattutto quando l’attività alla quale è addetta è oggettivamente pericolosa.
Inoltre perché l’orditoio era stato manomesso e un controllo preventivo, anche
sommario, avrebbe accertato se e da chi era stato manomesso, se e da chi erano
state osservate le norme di sicurezza. Tutte cose che sono state accertate
dopo, e avranno sicuramente orientato la condotta processuale degli imputati,
due dei quali, marito e moglie, titolari della fabbrica tessile, hanno
accettato di patteggiare la pena. Un esempio, uno dei tanti, che dimostra
l’utilità, o la necessità di controlli preventivi per salvare vite umane. Altrettanto,
mutatis mutandis, può dirsi del disastro ferroviario di Brandizzo. È avvenuto
il 30 di agosto: e otto giorni sono pochi per ricostruire la dinamica
dell’incidente, accertare le colpe dei singoli. Che certamente esistono, e sono
in via di accertamento, se gli operai sono stati travolti dal treno mentre lavoravano
sui binari senza nullaosta e col treno investitore in arrivo. Pare che non
fosse la prima volta che gli operai iniziassero e continuassero a lavorare ancor
prima del nulla-osta. Ma, mi chiedo, sono stati mai eseguiti controlli sui
lavori di manutenzione nelle Ferrovie piemontesi? Se sì, da chi sono stati
eseguiti, a chi sono stati affidati? Forse all’addetto scorta della RFI
(società appaltante) attualmente indagato (e proprio per avere consentito che il
lavoro iniziasse prima) insieme con Andrea Girardin, capocantiere della Sigifer,
(società appaltatrice), anch’egli indagato per lo stesso disastro, ma rimasto “miracolosamente”
illeso? E a che si riducono i controlli, quando la stazione appaltante sembra
obbedire alla sola logica del profitto, incrementando il numero di ore,
diminuendo i salari, riducendo le pause? E a chi serve questa commistione di norme,
quelle sulla colpa e quelle sulla sicurezza? a che serve questa distinzione tra
colpa con previsione e dolo eventuale, se viene costantemente superata a favore
della prima dalla Cassazione (S.C. SS.UU. 18.9.2014 n. 38343)? Quello che pare
accertato è che la manutenzione veniva affidata a gente incapace, che non si
curava di violare norme elementari di sicurezza in omaggio a una prassi sconsiderata,
che bene avrebbe potuto scoprire il primo ispettore del lavoro che si fosse
recato sul posto. Prevenzione, prevenzione e controllo. Questa è la lezione che
si trae dalla strage di Brandizzo. Il guaio è che i controlli costano, servono
nuovi ispettori del lavoro. A proposito, che fine hanno fatto i duemila
ispettori promessi da Draghi per potenziare i servizi di controllo: sono stati
assunti o sono rimasti lettera morta? E come la mettiamo coi giovani vincitori
di concorso che rinunciano in massa al posto nel pubblico impiego (dove vengono
retribuiti con salari da fame) e si rivolgono al privato? Il guaio è che le
finanze statali non autorizzano soverchie illusioni. Se trovi le risorse per
affrontare un problema, ce ne è un altro che ne rimane privo. Occorrono esercizi
di equilibrio per far quadrare i conti, per assicurare priorità alle esigenze
più acute, per distribuire equamente i fondi disponibili. Gli infortuni sul
lavoro, che interessano la vita delle persone, meriterebbero priorità assoluta.
Se così non fosse, di ispettori del lavoro si continuerebbe inutilmente a
parlare, continuerebbero a disertare i giovani vincitori di concorso per rivolgersi
al privato o migrare all’estero. Altre alternative non ne vedo.
Michele Di Lieto
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