Nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, continuiamo a
condividere alcuni suoi testi particolarmente significativi. Questa lettura ci è stata proposta dall’artista
Ermanno Crescenzi e si rifà alle “Lettere luterane”.
Vorrei
aggiungere ancora qualcosa a ciò che ti ho detto nell'altro paragrafo
intitolato «Come devi immaginarmi».
Sul
sesso ci soffermeremo a lungo, sarà uno dei più importanti argomenti del nostro
discorso, e non perderò certo occasioni di dirti, in proposito, delle verità,
sia pure semplici che tuttavia scandalizzeranno molto, al solito, i lettori
italiani, sempre cosi pronti a togliere il saluto e a voltare le spalle al
reprobo.
Ebbene:
in tal senso io sono come un negro in una società razzista che ha voluto
gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un «tollerato».
La
tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un solo
esempio o caso di tolleranza reale. E questo perché una «tolleranza reale»
sarebbe una contraddizione in termini. Il fatto che si «tolleri» qualcuno è lo
stesso che lo si «condanni». La tolleranza è anzi una forma di condanna più
raffinata. Infatti al «tollerato» - mettiamo al negro che abbiamo preso ad
esempio - si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di
seguite la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa
affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua «diversità» - o meglio la sua
«colpa di essere diverso» - resta identica sia davanti a chi abbia deciso di
tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza
potrà mai abolire dalla propria coscienza il sentimento della «diversità» delle
minoranze. L'avrà sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi - certo - il
negro potrà essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità,
anche fuori - certo - dal «ghetto» fisico, materiale che, in tempi di
repressione, gli era stato assegnato.
Tuttavia
la figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. Il negro sarà libero,
potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma
egli resterà sempre dentro un «ghetto mentale», e guai se uscirà da lì.
Egli
può uscire da li solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di
chi vive fuori dal ghetto, cioè della maggioranza.
Nessun
suo, sentimento nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere «tinta» dall'esperienza
particolare che viene vissuta da chi è rinchiuso idealmente entro i limiti
assegnati a una minoranza (il ghetto mentale). Egli deve rinnegare tutto se
stesso, e fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un'esperienza normale,
cioè maggioritaria.
Poiché
siamo partiti dal nostro rapporto pedagogico (cioè, in particolare, da «ciò che
sono io per t In queste ultime settimane ho avuto modo di pronunciarmi
pubblicamente su due argomenti: sull'aborto,' e sull'irresponsabilità politica
degli uomini al potere.
Chi
è a favore dell'aborto? Nessuno, evidentemente. Bisognerebbe essere pazzi per
essere a favore dell'aborto. Il problema non è di essere a favore o contro
l'aborto, ma a favore o contro la sua legalizzazione. Ebbene io mi sono
pronunciato contro l’aborto, e a favore della sua legalizzazione. Naturalmente,
essendo contro l'aborto, non posso essere per una legalizzazione
indiscriminata, totale, fanatica, retorica. Quasi che legalizzare l'aborto
fosse un vittoria allegra e rappacificante. Sono per una legalizzazione
prudente e dolorosa. Cioè, in termini di pratica politica, condivido, stavolta,
piuttosto la posizione dei comunisti che quella dei radicali,
Perché
io sento con particolare angoscia la colpevolezza dell'aborto? L'ho detto anche
questo chiaramente. Perché l'aborto è un problema dell'enorme maggioranza, che
considera la sua causa, cioè il coito, in modo cosi ontologico, da renderlo
meccanico, banale, irrilevante per eccesso di naturalezza. In ciò c'è qualcosa
che oscuramente mi offende. Mi mette davanti a una realtà terrorizzante (io son
nato e vissuto in un mondo repressivo, clerico-fascista).
Tutto
ciò ha dato al mio discorso, sull'aborto una certa «tinta»: «tinta» che
proviene da una mia esperienza particolare e diversa della vita, e della vita
sessuale.
Come
cani rabbiosi, tutti si sono gettati su di me non a causa di quello che dicevo
(che naturalmente era del tutto ragionevole) ma a causa di quella «tinta». Cani
rabbiosi, stupidi, ciechi. Tanto più rabbiosi, stupidi, ciechi, quanto più (era
evidente) io chiedevo la loro solidarietà e la loro comprensione. Perché non
parlo di fascisti. Parlo di «illuminati», di «progressisti». Parlo di persone
«tolleranti». Dunque, ecco provato quanto ti dicevo: fin che il «diverso» vive
la sua «diversità» in silenzio, chiuso nel ghetto mentale che gli viene
assegnato, tutto va bene: e tutti si sentono gratificati della tolleranza che
gli concedono. Ma se appena egli dice una parola sulla propria esperienza di
«diverso», oppure, semplicemente, osa pronunciare delle parole «tinte» dal
sentimento della sua esperienza di «diverso» si scatena il linciaggio, come nei
più tenebrosi tempi clerico-fascisti. Lo scherno più volgare, il lazzo più
goliardico l'incomprensione più feroce lo gettano nella degradazione e nella
vergogna.
Ebbene,
caro Gennariello, alla gazzarra nata sulla questione dell'aborto ha fatto
riscontro il più assoluto silenzio sulla questione degli uomini di potere
democristiani. E, in proposito (sia ben chiaro), non ho fatto certo un discorso
di comune amministrazione, cioè di costume... Ma, su questo punto, parleremo
nel prossimo paragrafo, il cui tema sarà il linguaggio.
Tratto da “Lettere luterane. Paragrafo
terzo: ancora sul tuo pedagogo” (20 marzo 1975)
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