Ecco le recensioni di Iole Chiagano e Domenico Amatucci a "La casa sul poggio", il romanzo di Michele Di Lieto recentemente pubblicato da L'ArgoLibro.
La prima presentazione dell'opera si terrà sabato 19 marzo alle ore 10:00 presso il "Liceo Statale A. Gatto - Sezione Classico" ad Agropoli.
Leggendo “La casa sul poggio”, ultimo
romanzo di Michele Di Lieto, molti autori mi sono venuti in mente, da Manzoni a
Verga a Galsworthy,
da Tomasi di Lampedusa a Bacchelli alla Morante a Eco e talvolta persino
a Cervantes ma, cercando di seguire le linee di paragone con essi, mi sfuggiva
sempre qualcosa. Sebbene anche questo nostro romanzo si richiami al romanzo
storico, la sua struttura narratologica mostra una fisionomia peculiare che
appartiene a quasi tutte le opere di Michele di Lieto, si potrebbe dire una sua costante: la
narrazione spesso s’interrompe per tornare al presente o per considerazioni
personali, con paragoni e analisi in cui l’autore s’interroga su come sarebbe
stata quella tale situazione se si fosse verificata nel presente. E’ certamente
una novità questa intromissione del narratore, soprattutto in questo genere di
romanzo che, per il resto, risponde a tutte le dinamiche del romanzo storico.
Quello che interessa all’autore, in modo particolare, è il rapporto tra la
società civile e il mondo della realtà storica: egli è preso essenzialmente dai
fatti vissuti dai singoli che descrive secondo una narrazione lucida e pacatamente
realistica.
La “verità” narrata risponde al
linguaggio tipico dell’autore; il suo
stile rimane fedele alla chiarezza espressiva e alla struttura logica di un
discorso piano, ricco di un lessico personale che costituisce il nucleo
fondamentale del suo linguaggio letterario
presente in tutti i suoi romanzi ma,
in quest’ultimo, trova una
collocazione più specifica trattando di argomenti storici e, spesso, anche
giuridici. Quel che rende originale il romanzo di Michele di Lieto è che,
nonostante la Storia, le calamità, le
vicissitudini, il suo linguaggio narrativo si colora di una diffusa, leggera “ironia”
che rende più leggera la vita.
L’autore ripercorre gli snodi
principali di tre secoli che ruotano intorno alle vicissitudini della famiglia Ognissanti e alla loro “benedetta”
casa in compagnia di un vorticoso e
affascinante brulichio di figure reali e immaginarie in assoluta libertà di ricerca storica, documentata e non, come
Egli stesso confessa.
Non è un caso che l’autore segua
l’evolversi della famiglia Ognissanti da Napoli (o da Girgenti) al Cilento
dalla metà del 1600 alla fine del 1900. Infatti la sua narrazione è anche
frutto dell’esperienza umana e professionale che lo ha messo a contatto con
“personaggi” che ha incontrato nel
Cilento dove vive da oltre trent’anni.
Questo mondo, al quale Di Lieto si è avvicinato sempre con animo
curioso ed amico, sembra aver destato in lui la sensazione che il senso della
vita non sia nelle certezze, nella stabilità, ma nella mutevolezza che però nulla
cambia davvero per la contraddittorietà
degli eventi. Infatti i secoli, che il
Nostro attraversa, evidenziano il principio immobile della dinamica storica
secondo cui: “agli uni il potere e agli altri la servitù”.
Come si può immaginare è un’impresa
non facile ma l’autore riesce a dare un quadro convincente e avvincente di
questa “saga” che attraversa gli eventi più importanti del lungo periodo
storico raccontato. La sua arte narrativa confonde verità e invenzione con
maestria, sicuro com’è che nella contraddittorietà del reale consista la totalità
della vita.
Sarebbe una impresa, forse anche
superflua, tentare una sintesi di un romanzo che abbraccia più di tre secoli di
storia, dalla peste del seicento al terremoto dell’80, dalla repubblica
partenopea alle migrazioni di fine ottocento, da Gioacchino Murat a Umberto I°,
e racconta la lunga odissea della famiglia Ognissanti, mai disgiunta dalla
sorte della Casa sul poggio, che è il simbolo di tutte le traversie della
famiglia protagonista.
Mi limiterò a dire che il romanzo è
diviso in quattro parti; che ogni parte ha la sua storia, che ogni storia ha i
suoi eroi, che tutti gli eroi si scontrano coi potenti, che tutti gli eroi fanno
una brutta fine. A partire da Gesualdo, eroe della prima parte che dallo
scontro coi potenti esce sconfitto, perché “non c’è giustizia per i poveri
cristi”. Per finire ad Antonino, eroe della quarta, che pure si scontra coi potenti,
pure ne esce sconfitto, perché questa è “la giustizia dei poveri cristi”. Come
si vede, motivi che tornano e riportano al presente la storia del passato secondo
un modulo narrativo che sopra abbiamo definito costante nelle opere
dell’Autore.
Ma una brutta fine fa pure la Casa sul
poggio che dà titolo al libro. Oggetto di un progetto di restauro perseguito da
Antonino, progetto che si scontra col potere dei ricchi, ma anche con le
invidie dei meno ricchi, la casa sul poggio non sarà neppure ultimata. Sottoposta
a sequestro “per dieci centimetri in più al piano mansardato”, si fermerà al
piano terra neppure completato. Resta della
casa solo il cartello “roso” dal tempo: sequestro penale, corpo del reato. “Sta
proprio sotto la scritta incisa sul portale: TO (Terzo Ognissanti) AD MDCLXXI,
anno del Signore 1671”. Che è l’anno di nascita della casa, e segna la fine del
libro.
Vorrei concludere, e mi avvio alla
fine, tornando all’ironia, della quale
dicevo all’inizio, che stempera le situazioni più amare, e sembra del tutto
congeniale all’autore. Si veda, a titolo di esempio, la quarta parte del libro,
dove l’ironia è presente dall’inizio alla fine. A partire dalla figura di
Antonio, padre di Antonino, aspirante emigrante, “candidato ad essere iscritto
nella circoscrizione dei votanti all’estero”, che torna al paese natio “accolto
dalla banda di Conversano”, “chiamata per la verità non per lui ma per il santo
patrono che quel giorno si festeggia”, per finire alla figura del protagonista,
Antonino, “infermiere ferrista”, innamorato di Marta Boschi, “campionessa di
tiro con l’arco”, che fa “la fine di Coppi”: anzi l’opposta, perché mentre
Coppi muore di malaria (e Geminiani si salva), Antonino, malamente curato per
malaria, muore di “febbre di Tailandia” (e Marta Boschi si salva).
E qui concludo, non senza aver fatto, per
completezza, un cenno al linguaggio, che già si è detto semplice, lineare,
anche quando si parli di legge e di diritto, ma che, nella terza parte, si inventa un vero e proprio
epistolario in dialetto cilentano. Non sembra che l’Autore voglia concedersi a
mode del tempo che vive (il paragone viene spontaneo con Antonio Pennacchi e
Canale Mussolini): sembra piuttosto che il ricorso al dialetto cilentano
rappresenti un atto di omaggio, un segno
di affetto verso quel mondo al quale l’Autore si è sempre affacciato con animo
curioso ed amico, come si è detto prima.
In definitiva, un bel libro, un
romanzo che raccomando al lettore per scoprire le tante vicende puntualmente
descritte e gli altri mille personaggi che ci raccontano una umanità sempre
ricca.
Commento
a cura di Iole Chiagano
La casa sul
poggio, l’ultima fatica letteraria di Michele Di Lieto, il magistrato scrittore
votato alla narrativa, è un romanzo maturo per densità di pensiero e varietà di
contenuti; che tuttavia, a dispetto dell’età dell’autore, si segnala per
originalità di temi e freschezza di stile, e sembra, almeno così ci auguriamo,
un punto di partenza piuttosto che un punto di arrivo.
Apparentemente,
La casa sul poggio ripercorre la storia di una casa e la storia di una famiglia
attraverso i secoli, dal seicento fin quasi ai giorni nostri. Si è parlato di
Storia e storie, di storia vera e storia falsa, di libro metà saggio metà
romanzo, di romanzo storico. Il fatto è che un libro complesso e completo com’è
La casa sul poggio si presta a più livelli di lettura, e ogni interpretazione
coglie nel segno, a seconda dell’angolazione visiva di chi scrive.
Un aspetto
non sufficientemente esplorato sembra però quell’insistere dell’autore in
confronti e analogie, quel riportare costante la Storia nel tempo a tempi più
recenti, ai tempi in cui si vive. Intendiamoci: non è una novità, soprattutto
per i romanzi storici non è una novità. Anche i Promessi Sposi sono, almeno per
lungo tempo così si è ritenuto, un affresco della storia del seicento riportata
ai tempi dell’Autore, la dominazione spagnola come allegoria della dominazione
austriaca. E’ lo stesso Manzoni ad autorizzare una interpretazione del genere
quando si lascia sfuggire, e non è vero che gli sfugga: “Così va il mondo, o
almeno così andava nel secolo decimo settimo”. Solo che ne La casa sul poggio
questo motivo non si coglie tra le righe, ma è una costante della narrazione. A
partire dalle prime pagine, dal racconto del naufragio de La Porta celeste, là
dove l’Autore, a proposito di chi è morto e chi è vivo, e sono vivi i suoi
protagonisti, del “perché tanti morti e proprio loro erano salvi”, si lascia andare
al primo confronto esplicativo, affermando senza mezzi termini che “questi sono
interrogativi rimasti irrisolti anche ai tempi nostri, interrogativi che si
ripropongono ad ogni carretta che naufraga, e sono tante nel mare di Sicilia”.
Per finire alla quarta parte, che è una vera e propria denuncia di quello che
lo stesso autore definisce cinismo del potere, l’eterna ingiustizia che
affligge i “poveri cristi”. Si segua la vicenda di Antonino, un romanzo nel
romanzo, travolto e sbattuto da un ufficio all’altro, dalla cassa al geometra,
dal geometra all’ingegnere, dall’ingegnere al geologo, dal geologo al
sondaggista, dal sindaco all’avvocato, dall’avvocato al tecnico e al notaio,
tutto questo per riattare un edificio malandato. Un romanzo nel romanzo che
descrive nient’altro che gli eccessi di certa burocrazia: “dalla Soprintendenza
all’Ente parco, dall’Ente Parco alla Autorità di bacino, dalla Commissione
grandi opere alla Commissione grandi rischi”. Una vicenda che dovrebbe far
riflettere i politici, a partire dal Ministro per la semplificazione, se è
vero, come è vero, che di semplificazione ha bisogno il nostro Paese, per
eliminare lacci e lacciuoli che costituiscono la prima fonte di corruzione, e
si abbattono sulla vita dei cittadini, sempre più spesso ridotti a “poveri
cristi”.
Un altro
aspetto che caratterizza questo romanzo è il ricorso insistito a temi più
propriamente giuridici, che hanno, od hanno assunto, anch’essi valore di
attualità. Certo, l’Autore non poteva immaginare, quando ha scritto, quante
polemiche avrebbe provocato una norma, inserita in un decreto legislativo
adottato su delega dell’Unione europea “a tutela del consumatore”, che sembra
eliminare il divieto del patto commissorio sancito dall’art. 2744 del codice
civile e che, se pure dovesse configurare qualcosa d’altro, certamente non
sarebbe dettata “a tutela del consumatore”. Fatto sta che nella terza parte de
La Casa sul poggio Michele Di Lieto imbastisce un processo fondato proprio sul
patto commissorio: un processo affidato a un giudice coraggioso, caratterizzato
da veri e propri colpi di scena e che, una volta tanto, segna il trionfo dei
“poveri cristi”.
Non è il
solo caso: perché nella prima parte l’autore tratta un processo contro il Banco
di Sant’Eligio, che è un processo contro lo strapotere dei ricchi, contro il
quale si scontra il “povero cristo”; e nella quarta inserisce una denuncia di
nuova opera, temeraria e infondata, strumentalmente adoperata da “poveri
cristi”contro “poveri cristi”. Ma questo dei temi giuridici non deve
spaventare. Perché Michele Di Lieto è sempre lì a chiarire, a interpretare, a
guidare per mano anche i non addetti ai lavori, a distinguere giudici da
giudici, avvocati da avvocati, a mettere in guardia contro i guasti che toccano
“agli umani”, “quando la giustizia viene piegata a fini di ingiustizia”. E se
questo non bastasse, c’è lo stile: che non è una novità, e rimane lo stesso,
piano, accessibile e sicuro, sia che si tratti di arte e di natura, sia che si
tratti di storia e di diritto. Uno stile, è stato detto, che si fonda sotto il
profilo formale sulla ripetizione della parola chiave, che diventa elemento di
congiunzione tra il pensiero che precede e quello che segue (Anna Milite). Uno
stile che induce, quasi costringe il lettore a seguire l’autore di periodo in
periodo, di capitolo in capitolo, sino alla fine (Anna Milite, Marcello
Alfinito).
Commento a cura di Domenico
Amatucci