Chi ha detto che durante le sere
d’inverno, quando una morbida coltre di neve ricopre le fronde degli alberi e i
rumori del giorno, davanti al piacevole crepitare del fuoco nel camino possano
trovare spazio soltanto storie e leggende del passato? Chi pensa che non
possano avere la stessa magia di queste ultime anche le storie dell’oggi o,
addirittura, quelle ambientate in un fantascientifico futuro? Se qualcuno
avesse ancora simili convinzioni, dovrebbe leggere “I racconti del focolare”, splendida opera prima di Silvio Coccaro, pubblicata nei mesi
scorsi dalla Casa Editrice L’ArgoLibro.
E sottolineo splendida per
due motivi: lo stile narrativo che procede attraverso una scrittura
ineccepibile sotto ogni aspetto, semplice, lineare, priva di inutili fronzoli,
mai prolissa né pomposa, neppure là dove ricorrono termini irrimediabilmente
scientifici; l’incanto che suscita ogni singola storia di questa raccolta.
Sono storie dei giorni nostri, di
ieri e del domani, storie reali e, per ora, irreali, ma non improbabili, dalla
cui lettura si apprende, non senza stupore, che l’autore è anzitutto un uomo di
scienza. Ecco, dunque, la narrativa come utile strumento di divulgazione
scientifica, rivolto tanto ai più giovani quanto agli adulti. Ma la scrittura
del dottor Coccaro non è solo questo: è anche scrittura di profonda delicatezza
che sa parlare di sentimenti, che si volta rispettosamente indietro
riconoscendo la grandezza della cultura classica (a partire dal “conosci te
stesso” di socratica o più antica memoria) e che a tratti s’intinge di
malinconica poesia.
Come già evidenziato da Milena Esposito nella sua
brillante prefazione al libro, “I racconti del focolare” regalano al lettore
tanti viaggi diversi: tra gli infiniti e inimmaginabili spazi siderali a bordo
di una navicella cosmica in compagnia del capitano Luskhas Harowicki, così come
lungo i non meno misteriosi sentieri del pensiero, perché, se è vero che uno
sconfinato universo circonda l’uomo, la mente umana rappresenta tuttavia un
universo ben più vasto di tutti i possibili universi esistenti e, come tale,
richiede esplorazione; ancora, in giro per il mondo seguendo l’inarrestabile
percorso di una gocciolina d’acqua o al chiuso di un ospedale, dove a una bimba
appena venuta alla luce la vita già impone di affrontare una prova durissima.
Il viaggio che però colpisce ed emoziona in modo
particolare, al di là di ogni tempo e appartenenza geografica, è forse quello
tra i ricordi e gli affetti più cari sullo sfondo di un “mondo semplice
trascorso per sempre”, quale è il Cilento della fanciullezza dell’autore.
Un mondo, più o meno come ovunque, per buona parte scomparso e velato di
nebbia, proprio come quella che, nell’ultimo racconto, scende sui passi di padre
e figlio di ritorno verso casa, mentre il sole s’accinge a tramontare su
un’altra giornata di speranza e lavoro:
“La nebbia risale a falangi
lungo l’erta collinare che dall’Alento porta alla vetta della Rupe ra Noce. Tra
le sue schiere si insinuano, come fendenti, luminosi raggi di sole. L’aria
intrisa di umidità scorre fredda sul mio viso. […] La nebbia progressivamente
nasconde ai nostri occhi i terreni coltivati della valle, […] ed adesso è ai
piedi della montagna. […] Papà si rinserra nel suo pastrano, i suoi occhi
scrutano la valle e si perdono nella nebbia, come i suoi pensieri… La primavera
si avvicina, i campi richiedono molto lavoro, il tempo è sfavorevole, i suoi
numerosi figli sono a casa che lo aspettano. […] Il buio della sera avvolge la
casa con la sua quiete ed il suo silenzio.”
(da “Un giorno, un ricordo”)
Laura Vargiu
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