lunedì 28 marzo 2022

Pasolini e Giorgio Bocca

 


Nel centenario della nascita di Pasolini, voglio segnalarvi una particolare intervista dell’estate del 1966 con Giorgio Bocca, proposta da Arcangela Contessa.

 

Intervista a Pasolini.

“L’arrabbiato sono io”
Giorgio Bocca, «Il Giorno», 19 luglio 1966

Certi mattini, al risveglio, il pensiero dell’età è come una folgore. L’ulcera, un mese a letto, la debolezza, i riguardi. Mi sono sentito un vecchio, per la prima volta.


Già, il vecchio Pasolini Pier Paolo, cinquanta chili di una rabbia che è solitudine, amore, timidezza, incontinenza, paura, genio. Cinquanta chili di uomo. Ma non è questo che fa tenerezza o mette a disagio, ma ben altro: sentirsi in debito con lui per conto di tutti e non sapere che fare, come ripagarlo dell’intelligenza che ci ha dato in questi anni, generosamente. Non è il denaro che vuole anche se noi ci guardiamo bene dal darglielo; né siamo autorizzati a concedergli quella esenzione dalla morale comune che chiede con tanta ingenua insistenza: diamogli almeno la stima intellettuale che merita (su diamogliela cuori spugnosi e cervellini esangui), diciamolo che è il migliore di tutti.

La mamma porta il caffè all’ospite e la camomilla al figlio. Sediamoci nel giardino, c’è un po’ di vento. Così, tanto per sfuggire al patetico, attacco un po’ alla balorda.

Senta Pasolini, per lei chi è il vero arrabbiato? Genet? Landroux? Germano Lombardi? Lenin? (Rimane male: son venuto da lui per scherzare? Ed è un altro segno del vero talento: l’ingenuità di fronte al banale. Comunque cambiamo registro.) Volevo chiederle, seriamente, qual è la differenza tra arrabbiato e rivoluzionario (Si passa la mano sul viso e socchiude le palpebre come uno che soffre di un’emicrania permanente).


La contestazione dell’arrabbiato è interna al sistema, per la modifica del sistema, ma perché esso viva. Il rivoluzionario invece lo nega sul piano reale e gli contrappone una prospettiva utopistica. No, mi lasci dire; spesso il rivoluzionario dopo aver distrutto la società costituita eccede nella ricostruzione, vuole che abbia tutti gli attributi, ci riporta anche il moralismo e il perbenismo borghesi, al punto che l’arrabbiato, a volte, incide più profondamente del rivoluzionario. Però una cosa è chiara, l’arrabbiato quasi sempre non è un rivoluzionario, mentre il rivoluzionario è sempre un arrabbiato.

 

Eppure si dice che un carattere del grande rivoluzionario sia il suo distacco, il suo sguardo gelido, da aquila, la sua facoltà di prevedere e muovere la storia trasferendo la sua rabbia ai manovali della rivoluzione: Lenin che prepara la rivoluzione in Svizzera.


La connotazione di cui lei parla, il sovrano distacco, non appartiene tanto al rivoluzionario, quanto al genio. Che Lenin fosse un genio è fuori dubbio. Eppure io non sarei tanto sicuro sul suo distacco. A scavargli nell’anima probabilmente avremmo scoperto la ferita profonda, aperta, lasciata dall’uccisione del fratello. Il Lenin arrabbiato non è quello che si scaglia contro la borghesia reazionaria, ma l’altro delle polemiche contro i menscevichi. Ed è un segno di rabbia autentica, di passionalità.

 

Qual è allora il modello dell’arrabbiato non rivoluzionario?


Socrate, senza esitazione. Arrabbiato, lui sì, con un distacco scientifico, al punto di rinunciare alla vita serenamente, e arrabbiato noti bene contro le mirabili istituzioni democratiche di Atene. Il caso di Socrate è perfetto: muore per rispettare le leggi di un sistema che pure consente la vita del suo accusatore Meleto.

 

E lei lo è arrabbiato? Le dico subito che l’avanguardia contesta…


Lasci stare, ho sempre evitato la polemica con l’avanguardia. Nei primi tempi me ne interessai, ma ci volle poco a capire che si trattava di nullità. È gente in malafede, che fa dei giochetti. Inutile discutere, sarebbe come litigare come una prostituta.

 

Mi scusi se insisto, non è tanto la polemica che mi interessa, ma il tema, questa rabbia di cui stiamo parlando, le forme e i contenuti che deve assumere. Di lei, per esempio, dicono: “Sì, Pasolini inveisce, maledice, dice le parolacce, ma in un contesto narrativo, vedi Una vita violenta, che ha la struttura del Cuore, con la differenza che il Cuore è di sinistra e il suo libro no. Il Cuore nel senso che il protagonista è un eroe positivo, bravo e buono e che in fondo la borghesia che osserva la sua povertà non è poi così malvagia.


Boutade per boutade, potrei rispondere che anche nell’Idiota di Dostoevskij c’è un eroe positivo. Quei signori non hanno ancora capito che un personaggio, anche se descritto a tutto tondo, non assume mai un significato preciso e vincolante, non è una dichiarazione di fede e neppure di voto, ma l’espressione, la misura del grado di conoscenza della realtà cui è giunto un autore. La verità è che il mio Cuore di destra non è diventato il libro della borghesia, ma l’ha spinta a una reazione rabbiosa, razzistica di odio verso il sottoproletariato e che la mia ‘vedetta lombarda’, se lo ricordino quei signori, ha scatenato persecuzioni a cui non sono rimasto estraneo.

 

C’è dell’altro, Pasolini, dicono che lei è un poeta ‘da volo su Vienna’, capace di usare la lotta di classe come D’Annunzio usò la guerra mondiale, a fini estetizzanti.


È un’accusa da cui non mi difendo. Vuol dire che mi sopravvalutano. Che dicono ancora gli avanguardisti? Ah ecco, dicono che il linguaggio è di importanza fondamentale per gli arrabbiati, che è ridicolo arrabbiarsi in versi alessandrini. Non amo i versi alessandrini, ma a volte mi sembrano una novità rispetto alle codificazioni più recenti dei versi alessandrini.

 

Pasolini, io al suo posto non me la prenderei solo con l’avanguardia. Dove sono nella repubblica italiana delle lettere i veri arrabbiati?


I letterati italiani sono, per definizione, dei soddisfatti o dei rassegnati. Salvo i pochi che vagano come larve, nella periferia, salvo i rarissimi che operano aristocraticamente a livello internazionale.

 

E secondo lei perché la rabbia è così rara dalle nostre parti?


Ci sono le grandi ragioni storiche: la Controriforma, la rivoluzione liberale imitata, posticcia, la rassegnazione, l’abitudine secondare all’irresponsabilità. C’è una borghesia fragile, improvvisata, un establishment incerto, e la grande rabbia, lei lo sa, esiste dove c’è la grande borghesia, dove c’è il grande nemico come nei Paesi anglosassoni. Poi c’è un motivo più recente: la guerra partigiana da noi è stata una cosa importante, una rabbia vera, drammatica. Una generazione vi ha dato il meglio, altre hanno creduto in buona fede, ragionevolmente, che quello fosse il canale, il modello di una rabbia seria, organizzata, esente da teatralità. È stato un bene per alcuni anni e poi forse è stato un male, ha impedito nuove e più sincere manifestazioni, ha chiuso energie giovani nel bozzolo dell’antifascismo generico.

 

Rabbia, protesta, il corvo rivoluzionario che muore mangiato ma prevedendo il successore. La rabbia che continua, inesausta. E l’ironia, Pasolini? La rassegnazione? La vita è vita, gli uomini uomini, e tutto è prevedibile nell’imprevedibile. Perché, alla lunga, uno non dovrebbe annoiarsi?


No, l’arrabbiato non rinsavisce, non si annoia, non trae lezioni, è come una cartina di tornasole, reagisce. Solo che quando è giovane spera nel futuro della sua vita mentre poi, con il passare degli anni, lo colgono i dubbi, gli scoramenti. Allora la rabbia aumenta, diventa ossessione. Sa perché ho fatto del cinema? Perché non ne potevo più della lingua orale e anche di quella scritta. Perché volevo ripudiare con la lingua il Paese da cui sono stato le cento volte sul punto di fuggire.

 

Lei si proclama arrabbiato, uno dei rari arrabbiati italiani, perseguitato per amore della rabbia. Eppure va a finire regolarmente che la sua rabbia si risolve in voglia di vita, in opere utili agli altri, in ricerche rischiose fatte anche per gli altri. Che effetto ha avuto per esempio il suo ultimo film?


Come sempre ambiguo. Io conduco una guerra su due fronti contro la piccola borghesia e contro quel suo specchio che è certo conformismo di sinistra. E così scontento tutti, mi inimico tutti, sono costretto a tenere relazioni complicatissime, fatte di spiegazioni continue. Adesso ho assunto una nuova fatica, dirigo una collana di saggi sul cinematografo.

 

Glielo dicevo. La sua rabbia migliore è questa, aprire nuove strade, fabbricare nuovi strumenti.


E poi il teatro. Alzatomi dal letto dopo la malattia, ho incominciato a scrivere per il teatro.

 

Il fiato caldo del vento muove le piccole piante, in basso, c’è un contadino vestito da portiere, quelle case di cartapesta sono Roma. Siamo rimasti in silenzio, poi lui dice: «Forse l’unica cosa da fare è di continuare a fare ciò che abbiamo fatto in questi anni». Bene, chiniamo la testa e avanti: è l’unico modo per non accorgersi che si è aperta una porta con dietro il buio.

 

sabato 26 marzo 2022

Giusi Teresa Botti - Il tempo a distanza

 


Autrice: Giusi Teresa Botti

Titolo: Il tempo a distanza - La nuova leadership orizzontale dei servizi educativi
Editore: L’ArgoLibro

Filastrocche a cura di Teresa Bonora

Approfondimenti socio-sanitari a cura di Donato Ferro

Progetto grafico: Cristina Piccirillo

Anno di pubblicazione: 2022
Numero pagine: 156
Copertina: a colori con alette 

Formato: 14x21

Prezzo di copertina euro 15,00

Spese di spedizione: Euro 4,63 (raccomandata postale)

Codice ISBN 979-12-80205-25-4

Per info e ordini: largolibro@gmail.com 

Per contattare l’autrice: giusiteresabotti@libero.it

Il prolungato stato di emergenza dovuto alla pandemia ha avuto ripercussioni profonde e importanti nel nostro Paese, non solo a livello sanitario ed economico, ma anche – e forse soprattutto – sul sistema sociale d’istruzione e di formazione.

In tempi brevissimi, siamo passati da una scuola “esclusivamente in presenza” a una “esclusivamente a distanza”. Al DPCM del 4 marzo 2020 del MIUR, che sanciva la misura restrittiva della chiusura delle scuole e la sospensione delle attività scolastiche di ogni ordine e grado invitando ad attivare forme di didattica a distanza (DaD), ne sono seguiti altri che hanno fornito alle scuole indicazioni man mano più specifiche. Nella nota ministeriale n° 388 del 17/03/2020, in particolare, vengono definite le prime indicazioni operative per le attività di DaD, raccomandando “la costruzione ragionata e guidata del sapere attraverso un’interazione tra docenti e alunni” e rimarcando la necessità di dare vita a un nuovo ambiente di apprendimento, profondamente flessibile e di volta in volta modulabile; la didattica a km 0 ha riformulato l’idea della duttilità dell’educazione più conforme alle mutate esigenze.

Alla luce dei cambiamenti che la pandemia ha imposto e in gran parte continua a imporre, occorre porre l’accento anche sui modelli pedagogici che possono agevolare un processo di trasformazione già in atto prima della pandemia e che la situazione vissuta fa emergere.

Il saggio di Giusi Teresa Botti si rivela fin dalle prime pagine particolarmente utile, con indicazioni e spunti di riflessione illuminanti.

Una nuova strada da intraprendere può essere quella di favorire una sorta di contaminazione fra il sapere formale e il bagaglio di conoscenze e pratiche educative diffuso sul territorio. In questo contesto, è sicuramente fondamentale il ruolo delle tecnologie digitali, dei media educativi, della formazione professionale, la qualità generale del sistema educativo che sono esplorati in questo libro e che definiscono gli scenari sulle possibili iniziative educative scaturite dall’alleanza fra scuola e territorio.

Tali scenari, oltre a offrire delle soluzioni per affrontare i rischi posti dalla situazione pandemica, rappresentano un’opportunità per rinnovare il sistema educativo e renderlo più calzante ai reali bisogni di una società profondamente mutata.

Nella seconda parte del libro, le autrici diventano due e alla figura tecnica, della nostra pedagogista, si affianca quella della maestra in pensione (sua nonna), che cura la stesura di ben quaranta filastrocche e una fiaba che tratta con maestria il tema del capriccio;

attraverso il trasferimento emotivo dei saperi, il libro si conferma anche un’agile guida pratica per le attività ludiche ed educative da svolgere in famiglia tra figli e genitori con bellissime immagini da colorare che, aggiungendo un tocco retrò alla pubblicazione, confermano la necessità di sapere da dove veniamo per capire dove andare.

Da sottolineare anche l’ottimo lavoro di Donato Ferro che si è occupato degli approfondimenti socio-sanitari.

sabato 19 marzo 2022

Al Padre

 


Tantissimi auguri a tutti i papà, in cielo e in terra.

 

Se mi tornassi questa sera accanto

lungo la via dove scende l’ombra

azzurra già che sembra primavera,

per dirti quanto è buio il mondo e come

ai nostri sogni in libertà s’accenda

di speranze di poveri di cielo,

io troverei un pianto da bambino

e gli occhi aperti di sorriso, neri

neri come le rondini del mare.

 

Mi basterebbe che tu fossi vivo,

un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.

Ora alla terra è un’ombra la memoria

della tua voce che diceva ai figli:

«Com’è bella la notte e com’è buona

ad amarci così con l’aria in piena

fin dentro al sonno». Tu vedevi il mondo

nel plenilunio sporgere a quel cielo,

gli uomini incamminati verso l’alba.

 

(Alfonso Gatto)

 

 

Il gabbiano volteggia, alacre scolta

sui lavori forzati dell’oceano.

Contro la diga ulula e spumeggia

l’onda dal vasto fiato.

 

Si affievolisce, padre, la tua voce

che innervava le antiche primavere.

Sul prato di smeraldo la tua croce

stende coltri di lava.

 

Una sola fatica ormai m’incalza,

un gioco eccelso, l’ultima avventura:

tradurre i tuoi messaggi quando suona

l’albero, l’acqua, il vento sull’altura.

 

(Maria Luisa Spaziani)

 

 

 

 

 

 

mercoledì 16 marzo 2022

Sandra Ludovici - Di... mondi e di... terra

 


Autrice: Sandra Ludovici

Titolo: Di… mondi e di… terra – Racconti in virtual reale

Editore: L’ArgoLibro
Collana: La Penna dello Scrittore

Anno di pubblicazione: 2022
Numero pagine: 142, in bianco e nero e a colori
Copertina: in cartoncino, sovraccoperta a colori con alette

Formato: 16x24

Prezzo di copertina euro 12,00
Spese di spedizione euro 4,63 (raccomandata postale)

Per info e ordini: largolibro@gmail.com 

Per contattare l’autrice: sludovici99@gmail.com

 

Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore.

Eschilo

 

Questa raccolta di racconti di Sandra Ludovici fa parte delle “Nuove Collane ~ La Penna dello Scrittore”.

La nostra autrice ha elargito a piene mani tanta poesia pubblicata dalla Casa Editrice “L’ArgoLibro” e l’alta qualità dei suoi versi è ben nota ai nostri lettori e alle nostre lettrici; questo libro dà spazio al genere narrativo più bello e complesso: il racconto. Un racconto, in fondo, è come una conchiglia: l’appoggiamo all'orecchio, ed essa ci fa ascoltare la voce del mare, con le onde e gli abissi, con i marosi e le maree.

I racconti che troverete in questa raccolta creano questa “immersione”, superano gli spazi reali e attraversano il visibile e l’invisibile. Il nostro consiglio è quello di leggere e rileggere i singoli racconti, divisi in due sezioni, di provare a vedere il mondo con gli occhi di un’artista.

Il futuro talvolta lo si può intravedere solo attraverso il lavoro del bravo scrittore, della brava scrittrice e il passaggio a esso travalica la realtà ordinaria che, nel bene e nel male, ricacciamo nel disprezzo a favore di mondi che solo la buona narrativa sa donarci.

 

sabato 12 marzo 2022

Pasquale Carelli - La cella della badessa

 


Autore: Pasquale Carelli
Titolo: La cella della badessa

Editore: L’ArgoLibro

Progetto grafico: Annamaria Carelli – www.ariacarelli.com

Anno di pubblicazione: 2022

ISBN 979-12-80205-29-2
Numero pagine: 368

Formato: 13x20

Prezzo di copertina euro 15,00
Spese di spedizione euro 5,00 (raccomandata postale)
Per contattare l’autore: 
 carellipas@gmail.com   

Per info e ordini: largolibro@gmail.com 

Primi giorni dell’aprile del 1547, Sarafina, giovane e bella contadina cilentana, col cesto in testa colmo di cibarie, scendeva scalza e assai prudente per Vetràli.

Sarafina teneva come un presentimento che qualcosa sarebbe andata storta quel mattino. E giustappunto per le terre di Riccella il focoso baroncino se ne andava verso di lei in sella al suo cavallo Scialandròne.

Riga dopo riga, il lettore è conquistato.

“La cella della badessa” di Pasquale Carelli è, senza dubbio, un romanzo avvincente, fin dall’incipit, chi legge si trova ammaliato dall’atmosfera, dal racconto e dalla personalità cesellata e viva (terrena e ultraterrena) dei protagonisti.

Lo sfondo è un Cilento inedito del Cinquecento, i personaggi sono semplici contadini, fraticelli di San Francesco, signorotti, nobili, ma anche cavalli, alberi e spiriti...

Ci troviamo a leggere un romanzo complesso da classificare: gothic novel, cronaca medievale, mistery, racconto fantastico, fiabesco, spirituale; questo libro può essere letto almeno su quattro livelli, ma ognuno può aggiungere il suo. Il primo gruppo di lettori sarà avvinto dalla trama ricca di colpi di scena, dalle descrizioni pittoresche, dalle scene evocative. Il secondo sarà attratto dall’umorismo, dalla schiettezza del narrato e dalla particolare scrittura dell’autore e sicuramente godrà di ogni sfumatura di un linguaggio forbito eppure intuitivo e semplice colorato da un dialetto veritiero, ma comprensibile a tutti.

La terza categoria ne farà una lettura spirituale e religiosa e si incamminerà per un percorso mistico in cui la vita giustifica la morte e la morte è soltanto un ponte.

Un altro gruppo di lettori sicuramente gusterà la narrazione storica fatta anche di luoghi e comportamenti, di psicologie antiche e per questo temibili e attraenti al tempo stesso.

Un libro bellissimo, questo di Pasquale Carelli, che si conferma un autore di prim’ordine.


Con “L’ArgoLibro”, Pasquale Carelli ha pubblicato anche “Tra una pizza e l’altra – Considerazioni e confessioni di un libero pizzaiolo italiano”, clicca sul titolo per aprire la pagina dedicata.

venerdì 11 marzo 2022

L'ultima intervista a Pasolini

 


“Siamo tutti in pericolo”.

L’ultima intervista a Pasolini
di Furio Colombo

Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato.

 

Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo…
Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo», non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.

 

Ecco, descrivi allora la «situazione». Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.
Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per «scegliere». Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e «collabora» (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal «potere»?

 

Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.

 

Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.
Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.

 

E qual è la verità?

Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire «evidenza». Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.

 

Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei «consumato» avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?
A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.

 

Come dire che hai nostalgia di quel mondo.
No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere «di che segno sei». Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse – se ha ancora un soffio di vita – in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa-effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la «situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.

 

E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.
Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e con bandiere diverse. E’ vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta». Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.

 

Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri, per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente, salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione «più avanzata»…
Che mi fa rabbrividire.

 

Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?
Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non so quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.

 

Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?
Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.

 

Pasolini, se tu vedi la vita così – non so se accetti questa domanda – come pensi di evitare il pericolo e il rischio?
È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande.

«Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina».

 

Il giorno dopo, domenica 2 novembre 1975, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia di Roma.


(Segnalazione e contributo di Giulio Ripa)